“Durano nel tempo solo le cose che non furono del tempo.”
Jorge Luis Borges, La rosa profonda
Suggestioni d’Africa in Piemonte. Assonanza alquanto strana, concetto nebuloso, che si fatica finanche a pronunciare, quasi affetti da disfonia improvvisa.
Ma, soprattutto, nel cuore dell’autunno l’accordo vocale vibra in modo celestiale esprimendo tutta la sua intensità come il LA di un diapason ripetutamente percosso.
Com’è possibile? Eppure anche Mario Soldati era d’accordo con me. In poche battute ritrae così questo spicchio di nord-ovest: “Chi non conosce le vaude e le baragge non può dire di sapere che cos’è il Piemonte. \”Oggi la baraggia era stupenda. Nel sole invernale, sullo scenario violetto e bianco delle Alpi, le baraggie erano immensi boschi fitti di querce, ed erano alternamente, campi sterminati di altissime erbacce filamentose, tutte di un compatto, caldo, vivo, splendente giallo zabajone, su cui tornavano a spiccare, qua e là, i rossi ruggine di alcune querce isolate. I medesimi colori di certi altopiani del Kenya\”.
Ambiente avido di silenzio che si snoda seducente tra le province di Novara, Vercelli e Biella su cui vigila l’imponente macigno di ghiaccio e granito del Monte Rosa, anche se l’Italia sembra uno sfocato ricordo lontano come quando da bambini si guardava in un cannocchiale al contrario.
Ci si attende da un momento all’altro di veder comparire oltre quelle betulle solitarie un animale feroce, forse un leone acquattato nel viola dell’erica scozzese, o tra le molinie torrefatte, ed invece ecco svettare cheto un campanile. Laggiù è la chiesa di Castellengo, frazione di Cossato (BI). Oggi capoluogo di provincia, ma in tempi remoti Biella non era altro che un piccolo agglomerato di case in legno attorniata dai pascoli invernali, che forte della sua posizione strategica tra la pianura e le Alpi nei secoli ebbe modo di guadagnarsi un ruolo di fondamentale importanza.
Il nucleo più antico privo di decorazioni, realizzato, grazie alla vicinanza del torrente Cervo, con un misto di ciottoli fluviali e laterizi, risale all’XI secolo. Originariamente a navata unica con terminazione absidale la chiesa dedicata ai Santi Pietro e Paolo, culto estremamente antico risalente al IV secolo, era una minuscola chiesa di campagna dipendente dalla pieve di Cossato.
In età gotica venne eretta una seconda navata, quella che oggi appare alla nostra destra (informazioni che è possibile estrapolare da un documento risalente al XIII secolo e dall’osservazione degli archetti pensili presenti all’esterno dell’edificio) e ciò si verificò grazie all’interesse di alcuni nobili locali, soprattutto dei signori del Castello. Fortezza voluta da Alberico di Monterone nel X secolo ed ideata per il controllo dell’unica via di comunicazione tra Vercelli e Biella da qui transitante.
L’ultima navata, quella di sinistra, edificata attorno al 1500, ci consegna la chiese nella forma attuale.
Realizzata per mano della famiglia De Bosis (inizialmente Daniele, poi i figli), la decorazione pittorica risale attorno alla seconda metà del 1400. Bottega che in quel di Milano venne a contatto con Lodovico Il Moro, durante i preparativi del suo matrimonio, e le permise di collaborare con le più importanti correnti artistiche dell’epoca, tesoro successivamente messo a frutto in tutto il territorio biellese. La Chiesa di San Giacomo nel rione Piazzo è un validissimo esempio.
Gli affreschi di pregevole fattura narrano la storia di Gesù e della vergine con notevoli attenzione e cura nei particolari facilmente apprezzabili sulle pareti e sulle volte dipinte. Dettagli legati alla quotidianità con cui i frescanti dell’epoca erano soliti scontrarsi nella vita di tutti i giorni.
Un’apparente semplicità ci rivela in realtà molto sulle usanze dell’epoca. Nell’affresco della puerpera Sant’Anna ci stupiscono le minuziosità presenti nel vassoio consegnato da un ancella per il pasto; notiamo un coltello, il cucchiaio e dei pani mentre ai piedi del suo letto giace dormiente un cane.
L’abbigliamento delle donne è quello in uso attorno alla metà del XV secolo; tessuti damascati dai colori intensi nei toni del rosso, del giallo e del verde.
Nell’episodio della cacciata di Gioacchino dal Tempio si scorge un pastore che sostiene fra le braccia una pecorella abbigliato malamente. I suoi indumenti sono logori e sdruciti ed ai piedi calza scarpe rotte.
Di profondo interesse la rappresentazione dell’Assunzione. In alto campeggia la vergine in preghiera attorniata da angioletti, più in basso, come in una costellazione di volti, un gran numero di Apostoli osserva attonita la scena. Ben riconoscibile tra di essi San Tommaso per via della cintura donata dalla vergine e che afferra nella mano sinistra.
Nella navata centrale, sulla parete destra, è presente la rappresentazione del martirio di Sant’Agata; la femminea figura non volendo abiurare alla sua fede Cristiana, su pressione di Quinziano che se ne era invaghito, venne affidata nelle mani di Afrodisia, una prostituta nota per la sua depravazione e laidezza che avrebbe dovuto trasformarla in una figura Ante litteram della futura Marozia.
Sant’Agata nonostante gli avvenimenti e le tentazioni subite consolidava sempre più la sua fede in Cristo e la sua purezza votata alla castità, scatenando le ire di Quinziano che non potendo accettare la sconfitta mise a processo la santa sottoponendola ad inumane torture.
L’iconografia ce la restituisce coi capelli dolcemente raccolti dietro la nuca mentre i seni sono scoperti pronti ad accogliere con rassegnazione il tormento di grosse tenaglie che squarceranno per sempre quella sfumatura di eros negato.
Singolare notare come uno dei carnefici è ritratto con un gozzo molto pronunciato, sinonimo in epoca medievale di meschinità e cattiveria.
Nei sottarchi e sulle colonne oltre ad un memento mori composto da tre teschi notiamo la presenza di numerosi stemmi provenienti da famiglie importanti quali Savoia, Avogadro e Ferrero, alternati a figure di santi e sibille nelle figure di Geremia, Daniele, Ezechiele, Mosè, Salomone ed alcune rappresentazioni femminili di non semplice interpretazione.
Tra esse uno reca il nome di Giuditta ma l’immagine è ornata di baffi e barba, faccenda piuttosto curiosa trattandosi di una donna. Il “mistero” è presto svelato; nella sua dabbenaggine l’esecutore non essendo a conoscenza dell’esistenza dell’eroina ebraica la scambiò per una figura maschile consegnando al dipinto una folta peluria mascolina.
Di meritevole attenzione un San Bernardo di Mentone posto su una colonna; ci osserva con occhi dolci, quasi acquosi, spettatori di paesaggi fatti di cime e nuvole di bambagia, la mano destra atta a benedire mentre la sinistra impugna una catena a cui è legato il maligno che leggenda vuole fece precipitare lungo un dirupo. È il protettore degli alpinisti (molto venerato in Valle d’Aosta, a testimonianza i due passi alpini che lo ricordano) ed il suo nome da traduzione etimologica proveniente dal tedesco suona come “orso ardito”.
La chiesa di Castellengo sorta grazie alla robustezza delle fede dei nostri avi è uno patrimonio di arte e bellezza. I dipinti che adornano le pareti sono immobili testimoni dello scorrere del tempo e ci narrano dal lontano passato storie ricche di saggezza nelle quali l’uomo antico, col cuore traboccante di devozione, si rifugiava in cerca di risposte e conforto. Esso dal profondo di occhi sinceri e lucenti scrutava l’inconoscibile e contemplava attraverso l’essenzialità di forme e simboli quegli enigmi non ancora del tutto svelati che sentiamo pulsare ancor oggi con arcaico struggimento.
Filippo Spadoni