Nel nostro immaginario e nelle nostre più felici esperienze, alla montagna si associa l’idea del silenzio. Ma questa è una verità soltanto parziale perché, in un tempo neanche troppo lontano – fino alla fine degli anni Cinquanta almeno – le nostre valli echeggiavano di richiami, di canti e di voci.
La cultura occidentale, basata sulla tradizione scritta, fatica ad attribuire valore a quella orale. Eppure un canto, al pari di un’immagine, di un libro o di una scultura, è la testimonianza viva di un territorio, di una civiltà, del tempo trascorso. E’ qualcosa che parla di noi, della nostra vita presente e passata ma, diversamente da tutto il resto, lo fa con l’ausilio potente della musica.
Non parlerò in questo articolo dei cori alpini, nonostante a questi si pensi immediatamente quando si parla di musica di montagna, ma porterò alcuni esempi di canti popolari delle terre alte che ho avuto modo di studiare e che mi hanno particolarmente colpita. Scrivo queste righe e subito penso all’Arsunà: vocali, sillabe, o addirittura poesie, canzoni che gli abitanti degli alpeggi della Val Grande (VB) intonavano dopo le giornate di duro lavoro per comunicare da valle a valle, da alpeggio a alpeggio. Serenate, dichiarazioni d’amore o semplici saluti: la voce dei pastori diventava la voce stessa della montagna, la risposta dell’uomo ai mesi di isolamento forzato. In generale, il canto popolare è la più chiara espressione del fatto che le montagne non sono mai state vissute come barriera, piuttosto come punti di passaggio, di incontro e di scontro anche, a volte, come presto vedremo.
Come un’Arsunà, le canzoni popolari viaggiano da una valle all’altra: come in un telefono senza fili cambiano i testi, le lingue, a volte variano le melodie, ma ogni canto resta sempre chiaramente identificabile e spesso descrive un archetipo della vita di allora. Dimenticate qualsiasi immagine idilliaco-romantico legata alla montagna: qui si raccontano storie dure: infanticidi, femminicidi, emigrazione o povertà. E’ la vita, e si canta.
Senza pretese di esaustività voglio parlare brevemente di tre liriche legate in qualche modo alle terre alte.
Mariolin bella Mariolin – L’infanticida alla forca
“L’infanticida condannata è argomento di canto popolare in quasi tutti i paesi” – così scrive lo studioso Costantino Nigra e in effetti, come quasi sempre accade con i canti popolari è difficile risalire alle sue origini prime. Che questo tema non esattamente edificante sia così ricorrente non stupisce e si lega alle dure condizioni in cui vivevano le donne (soprattutto) in montagna. Un figlio illegittimo non era ovviamente ammesso “M’è ben più caro d’esser dannata che essere una ragazza disonorata” dice una delle versioni riportate dal Nigra; ma a volte bastava una condizione di povertà spinta per decidere che un figlio in più era un figlio di troppo. Ho avuto modo di studiare una versione di questo canto raccolta in Valle Vigezzo – a Craveggia in particolare. Ne esiste una versione lombarda molto simile, con qualche strofa in più mentre in altre appare la figura del “géntil galant” che chiede di vedere la bella prigioniera (e gli viene risposto che la vedrà solo in compagnia del boia). Il nucleo centrale più antico è però quello del bambino gettato nell’acqua, che ricorre in tutte le versioni e che, nella tradizione anglo-sassone e germanica, vede il salvataggio miracoloso del bambino da parte degli angeli e la sua visita alla madre in prigione, setti anni dopo l’infanticidio. Qui potete ascoltarne una delle versioni più comuni.
Mariolin bella Mariolin – Testo
“Mariolin, bella Mariolin, Mariolin, bella Mariolin,
Dove hai meso quel bambino che avevi?”.
” Mamma de la mia mamma, l’ho gettato in peschiera”.
“Figlia mia, parla più pian; Figlia mia, parla più pian
parla più piano che nesuno ti sente, ti sente la giustisia e la ti vien viene a prendere”.
E l’hanno presa, l’hanno legà, l’hanno presa, l’hanno legà
L’hanno legata con catene sicure, la bella Mariolina l’è in prigioni scure.
“Mamma mia, portèm del pàn, Mamma mia, portèm del pàn
portèm del pane e del’acqua ben fresca: e l’aria dela prigione mi fa male alla testa”.
O cielo cielo come faremo a girare la Francia
Il tema di questo canto – la diserzione – si intreccia con quello dell’emigrazione verso la Francia, fenomeno molto diffuso tra gli abitanti delle vallate alpine. Il canto sembra essere originario della bassa val Chisone e il riferimento alla ferma di leva di 30 mesi, permette di datarlo tra la fine dell’800 e l’inizio del 900. C’è anche chi attribuisce questa canzone al Trentino Alto Adige ma, come sempre, il canto popolare non ha padroni e ne troviamo versioni raccolte in Val Vigezzo e nella bergamasca – con una significativa variante di testo in cui il disertore viene arrestato,. La versione della Val Vigezzo la propongo qui, cantata da Lorenzo Valera, Valentina Volonté e Laila Sage, dell’Associazione Passamontagne niente meno che i miei insegnanti di canto. Qui invece il link a quella classica cantata dal coro della SAT.
Come faremo a girare la Francia – testo
Come faremo girare la Francia senza carte
senza carte della nostra nazion
Faremo fare un gran passaporto
vivo e morto
vivo e morto in Italia mai più
E scriveremo al re d’Italia
qualche cosa
qualche cosa ci manderà a dir
Ci manda a dire tornate in Italia
trenta mesi
trenta mesi a fare il soldà
O cielo cielo
O cielo cielo sta pure sereno
O cielo cielo sta pure sereno
Che questa notte che questa notte
Noi dovremo partir (2V)
Traverseremo pianure e colline
Sulle montagne della Savoja
Disertori sarem
Come faremo a girare la Francia
Senza aver soldi e senza scarpe
Per poter camminar
Domanderemo ‘la nostra regina
Che qualche cosa che qualche cosa
Lei ci manderà a dir
Ci manda a dire tornate in Italia
Turné In Italia turné In Italia
lalalalalala
Lo Bouié
Poteva mancare la cultura occitana parlando di musica popolare della montagna? Ecco una lirica antichissima e bellissima, risalente al Medio Evo (XIII secolo circa) e di cui i Catari si appropriarono nel periodo delle crociate contro gli Albigesi (1209-1229). Si tratta in realtà di un canto simbolico e criptato, che non conobbe pressoché variazioni nella melodia mentre le versioni di testo sono come al solito diverse. Lou Bouié veniva utilizzato per inviare messaggi in codice attraverso le diverse valli abitate dai catari, nell’imminenza del pericolo di attacchi da parte dei cattolici romani. Le cinque vocali che ricorrono AEIOU sono le iniziali del motto dei re d’Aragona, sceso in campo contro i crociati: Austri Est Imperare Orbi Universo (“il comando del mondo appartiene al Sud”) e tutto il testo è potentemente simbolico.
L’esordio del canto vede il bovaro ritornare a casa dal lavoro e trovare la moglie – Joana – ammalata: il riferimento qui è alla condizione di fragilità della chiesa catara, sotto attacco in quanto ritenuta eretica, e il nome della moglie riporta naturalmente al Vangelo di S. Giovanni, testo a cui quest’eresia era ispirata. La rapa, il cavolo e l’allodola con cui il bovaro prepara la zuppa per la moglie alludono invece ai blasoni dei grandi cavalieri catari e il canto di questa seconda strofa è in realtà una richiesta d’aiuto, un richiamo all’intervento armato. Infine, nelle ultime due strofe la donna – che sempre rappresenta la chiesa catara – chiede di essere seppellita nel profondo della grotta e aggiunge che le persone che sarebbero passate nel futuro da lì avrebbero bevuto solo acqua insanguinata. Qui la metafora fa riferimento alla sopravvivenza del catarismo anche qualora i cattolici ne avessero avuto ragione: il suo lo spirito sarebbe infatti sopravvissuto attraverso la rinascita del suolo. E l’acqua insanguinata? Quando i Catari erano costretti a fuggire da un luogo, prima che il nemico ne prendesse possesso inquinavano e avvelenavano le fonti d’acqua, affinché gli occupanti cadessero ammalati o avessero comunque vita difficile.
L’eresia catara fu completamente sterminata – è il caso di dirlo – dai crociati cattolici. Ove non vi furono massacri vi furono umiliazioni – gli Albigesi fatti sfilare nudi per uscire dalla città di Carcassonne nel 1209 – e papa Gregorio IX fu solerte a instaurare l’inquisizione nella città di Tolosa, per inferire il colpo di grazia all’eresia. Con il 1255 i catari furono storia e con essi finì anche la grandiosa civiltà occitana. Del loro messaggio di ritorno alla povertà della Chiesa resta l’immagine di Joana che, nella strofa finale, assurge al cielo con le sue capre.
Una curiosità: il canto, data la bellezza della melodia, divenne poi parte del repertorio di musica sacra della chiesa cattolica, naturalmente con un testo diverso. Pare che Giovanni Paolo II lo abbia cantato poco prima di morire.
Lou Bouié – testo
Quand lou bouié vèn de laura,
Quand lo bouié vèn de laura,
Planto soun aguïado,
A, e, i, o, u
Planto soun aguïado.
Trobo sa femo au pèd dóu fiò,
Trobo sa femo au pèd dóu fiò
Tristo e descounsoulado
A, e, i, o, u
Tristo e descounsoulado.
Se siés malauto, digo-lou,
Se siés malauto, digo-lou,
Te farai un poutage
A, e, i, o, u
Te farai un poutage.
Am’ uno rabo, am’ un caulet,
Am’ uno rabo, am’ un caulet,
Uno lauseto magro
A, e, i, o, u
Uno lauseto magro.
Quand sarai morto, enterras-me,
Quand sarai morto, enterras-me,
Au plus founs de la cavo
A, e, i, o, u
Au plus founs de la cavo.
E li roumiéu que passaran,
E li roumiéu que passaran,
Prendran d’aigo signado
A, e, i, o, u
Prendran d’aigo signado.
E diran qualo es morto eici,
E diran qualo es morto eici,
Acò’s la pauro Jano
A, e, i, o, u
Acò’s la pauro Jano.
Que s’es anado au Paradis,
Que s’es anado au Paradis
Au cèu amé si cabro
A, e, i, o, u
Au cèu amé si cabro.