Ogni fine primavera si partiva da casa nostra per andare in valle.
Fine di maggio, solitamente.
Si partiva dalla Valle Cannobina che non era ancora l’alba.
Faceva freddo, anche se era primavera.
Quando si entrava in Val Grande, perché in Val Grande si entra, toglievamo le scarpe. Avevamo solo quel paio e non potevamo rovinarlo sulle pietre cattive della valle.
Con noi salivano le vacche e le capre.
Erano magre, e come si diceva al tempo \”vacca se erano magre\”.
Andavamo in Val Cavrì a caricare un piccolo alpeggio insieme ad una famiglia di Cursolo.
L’alpeggio era scarso.
Poca erba e tanta discesa.
Alternativa non c’era.
Si andava e ce lo facevamo andare bene.
L’ultimo anno che sono entrata avevo con me la bimba nata da qualche mese.
La portavo nel gerlo, coperta da piccoli asciugamani.
Mancava poco all’alpeggio, molto poco.
Pensavo di essere quasi arrivata senza farmi male ai piedi.
Invece.
Una puntura secca sul piede.
Subito un’altra.
Non avevo dubbi.
Sapevo cosa era successo.
Mi fermai, scaricai la gerla e guardai il piede.
Quattro segni di piccoli denti…
Il dolore, da subito, forte.
Poco dopo divenne insopportabile.
Faticavo a salire, ma dovevo andare.
Come potevo fermarmi a poche centinaia di metri dall’alpe?
Non potevo, anche se il piede faceva male.
Molto male.
Ma, in qualche modo, arrivai all’alpe dove il marito, ed anche l’altro uomo, ci aspettavano. Non potete capire la fatica di salire con la gerla, la bimba e chissà quanti chili con me.
Stava per calare la sera quando arriviamo.
Una fatica da non credere.
Arrivai e caddi.
Gli uomini vennero, in quel momento, a sapere della morsicata di vipera.
Ma cosa potevano fare?
In quel periodo si usava far pipì sui morsi delle vipere.
Ma non funzionava mai, infatti svenni.
Mi attaccarono la piccola per farla mangiare, perché in qualche modo la creatura doveva vivere.
Il buio.
Buio totale per due settimane.
Una mattina mi svegliai.
Il marito non ebbe il coraggio ed allora mi portò fuori dalla baita: una piccola croce di legno.
Era morta.
Non saprò mai se avvelenata dalla vipera o dalla difterite.
Ma era morta.
Non capivo, non riuscivo a capire.
Dai alla luce una vita, ti addormenti e lei non c’è più.
Non capivo.
Ma la vita doveva continuare e continuare come sempre, tra fatica e polenta.
Polenta e fatica.
Dopo aver parlato con il marito, decisi che quello era l’ultimo anno che si caricava l’alpe.
Troppa disperazione per quel poco che ricavavamo.
Quell’anno, però, fu maledetto.
Una disgrazia dietro l’altra.
Non si finiva di piangere.
Quell’anno, inoltre, le Vipere erano ovunque.
In baita, nell’alpe ed anche sugli alberi.
Anno maledetto.
Se l’inferno esisteva in terra, la Val Cavrì era il suo luogo.
Ma, come detto, l’anno fu orribile.
Anche l’altra famiglia era salita con la piccola.
Era più grande di qualche mese della mia.
Era davvero bella.
Un colore che si capiva che stava bene.
Io stavo male, la mia non c’era più.
La piccola stava all’ombra di un grande castagno tutto il giorno, curata ora dalla madre ora dal padre.
Stava tranquilla.
Si lamentava poco.
Ma quell’anno era maledetto.
Forse dal Signore o forse eravamo in Val Grande. Non saprei. Alla fine di agosto arrivò un caldo torrido, da togliere il respiro.
Un urlo improvviso.
Straziante.
Doloroso.
La madre della piccola era andata a prendere la gerla con la piccola per allattarla. e
In quel momento l’orrore!
Il racconto si basa su testimonianze rintracciabili in diverse libri che narrano l’epopea della Val Grande, Parco Nazionale in provincia di Verbania, Piemonte.